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lunedì 25 maggio 2009

Stipendi: dove guadagnare di più in un paese di paghe appiattite 2009

di Raffaella Galvani
Pagati poco? Soprattutto, pagati male. Cioè tutti uguale, con poca o nessuna attenzione ai diversi livelli di professionalità o al costo della vita che cambia nelle varie aree del Paese. Basti pensare che 10 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato su 15 sono ammassati in un pantano che li blocca fra i 21 mila e i 23 mila euro lordi annui. E che un operaio di reparto di un’azienda del Nord-Ovest nel 2008 ha portato a casa 1.175 euro netti mensili, appena 66 euro in più di quello del Centro e poco più di un centinaio rispetto al collega del Sud.
È quanto emerge da un’inchiesta che Panorama ha svolto con la Od&m, società di consulenza direzionale leader nelle indagini retributive che, sulla base di una banca dati di 859.036 profili retributivi di dipendenti privati raccolti tra il 2004 e il 2008 (in Italia sono complessivamente circa 15 milioni, su un totale di oltre 23 milioni di occupati), ha fatto i conti in tasca a circa 600 figure tra dirigenti, quadri, impiegati e operai, suddivisi per aree geografiche. Fotografando il livello, e l’andamento rispetto a due anni fa, delle buste paga che realmente vengono consegnate agli italiani, al netto di tasse, imposte e contributi.
Il tema dei bassi stipendi in Italia è stato rilanciato in questi giorni dall’Ocse, che ha messo a confronto, uniformandole a parità di potere d’acquisto, le retribuzioni dei 30 paesi membri. E, con 21.374 dollari netti all’anno (pari a circa 1.200 euro al mese), ha piazzato il dipendente italiano single senza figli al ventitreesimo posto, davanti solo a portoghesi, cechi, turchi, polacchi, slovacchi, ungheresi e messicani. Ben sotto la media Ocse (25.739) e anche sotto la media Ue (24.552).
Conferma Mario Vavassori, docente al Mip-Politecnico di Milano e amministratore delegato della Od&m consulting: “In Italia siamo pagati poco e stiamo diventando tutti sempre più poveri. Basti pensare che nel 2008, con aumenti retributivi che hanno oscillato dallo 0,7 per cento degli operai e l’1,3 di impiegati e quadri al 2,1 dei dirigenti, nessuno ha tenuto dietro all’inflazione media, misurata dall’Istat con l’indice dei prezzi al consumo al 3,3 per cento, per non parlare dell’inflazione dei beni ad alta frequenza di consumo (come alimentari, benzina) che è stata del 4,9 per cento”.
Se le aziende, come confermano alla Od&m, non brillano per generosità con i loro dipendenti, il fisco e l’imposizione previdenziale danno la mazzata. Sotto la scure di tasse, imposte locali e contributi il dipendente medio privato, rispetto a uno stipendio lordo di 26.956 euro, nel 2008 si è visto amputare la busta paga del 28,9 per cento, con punte del 45,7 per una retribuzione dirigenziale di 103.424 euro.
Ma secondo Vavassori c’è una lettura dei dati ancora più preoccupante. “Il vero problema dell’Italia” sostiene deciso “non è tanto il basso livello delle retribuzioni, quanto l’appiattimento”.
Lo confermano i dati dello studio svolto dalla Od&m con l’Unioncamere sulle retribuzioni del 2007: solo 5 milioni di dipendenti su 15 superano la media dei 26.500 euro di stipendio medio lordo ed emerge una uniformità retributiva fra operai e impiegati, così come tra le figure operaie qualificate e quelle semispecializzate.
“È come se il lavoro avesse un valore univoco e le aziende avessero rinunciato a identificare e a premiare la professionalità” stigmatizza Vavassori “mentre il sindacato per troppi anni si è preoccupato solo di avere in mano il controllo della distribuzione quantitativa del reddito”.
Anche sul piano territoriale l’appiattimento sta creando problemi, in particolare là dove il costo della vita negli ultimi anni si è impennato (vedere Milano e il Nord in generale, ma anche le grandi città del Centro), al punto da rendere ardua la sussistenza con buste paga ritenute solo fino a ieri sufficienti. E infatti c’è chi intende rilanciare il tema delle gabbie salariali.
Gli esempi non mancano. Nel 2008, come risulta dalle tabelle di queste pagine, un responsabile acquisti nel Nord-Ovest, dove la vita è più cara, ha guadagnato 2.482 euro netti per 13 mensilità; il suo omologo al Centro ne ha presi 2.443, appena 39 euro in meno. Solo al Sud e nelle Isole si è avuta una differenza un poco più significativa, con 2.352 euro netti mensili e uno stacco di 130.
Se questo è il quadro, dove è meglio orientarsi? Fermo restando che non è così facile cambiare luogo di residenza o lavoro, dalle ricerche della Od&m emergono comunque delle indicazioni utili. La prima? A incidere in maniera significativa sono spesso le dimensioni aziendali. In altre parole, più è grande l’azienda, più si guadagna.
“Le dimensioni dell’impresa” si legge nel Decimo rapporto sulle retribuzioni della Od&m 2009 “determinano una significativa variabilità degli importi assoluti, che presentano valori costantemente in crescita all’aumentare dell’ampiezza delle imprese e scarti particolarmente elevati”.
In soldoni, un dirigente in una piccola impresa nel 2008 ha guadagnato 93.782 euro lordi annui, ovvero il 9,3 per cento in meno rispetto ai 103.424 euro incassati in media dal dirigente italiano, mentre il manager di una grande impresa ha preso 108.985, cioè il 5,4 per cento in più. E analoghi scarti riguardano la busta paga dell’operaio, che da un piccolo imprenditore prende 20.763 euro, il 4 per cento meno della media di categoria (21.626), mentre dalla grande industria incassa l’11,3 per cento in più (24.068).
Scarto meno forte invece per i quadri: dalla piccola alla grande impresa rispetto alla media ballano 6,7 punti percentuali in busta paga.
Da notare, dicono alla Od&m, che nel 2008 le retribuzioni nella grande azienda sono cresciute più che nelle altre dimensioni d’azienda per impiegati, quadri e operai, mentre i dirigenti hanno ottenuto una retribuzione inferiore a quella del 2007. Motivo? “La categoria ha pagato il peso maggiore dei sistemi retributivi più sofisticati legati ai risultati che le imprese hanno introdotto per i loro manager e stanno via via allargando ai quadri” dice Vavassori. “È probabile che il 2009 porterà quindi a questa categoria delusioni ancora maggiori visto l’andamento dell’economia, però è indubbio che è la via corretta da perseguire”.
Ma non è solo la dimensione a cui si deve guardare se si cerca di mettere al riparo la propria busta paga. Il settore è altrettanto importante, anche se non sempre tutti i lavoratori sono trattati con la stessa generosità.
L’industria conviene soprattutto agli impiegati (nel 2008 li ha pagati 27.474 euro lordi annui, il 7 per cento in più rispetto alla media di 25.679) e agli operai (più 5,4); in generale è quella che tra il 2007 e il 2008 ha mostrato i tassi di crescita degni di nota per tutte le categorie. “Si va dal più 4 per cento dei dirigenti al più 3,4 degli operai fino al più 2,1 dei quadri e al più 1,5 degli impiegati. E se sembra poco, va segnalato che commercio e servizi in media più spesso hanno registrato variazioni tra lo 0 e l’1 per cento” puntualizza Vavassori.
Banche e assicurazioni, nonostante le difficoltà, continuano invece a pagare bene soprattutto i dirigenti (5 per cento più della media), che invece sono sottopagati (meno 1 per cento sulla media di categoria) dal commercio.
La sorpresa? Le società di servizi del terziario avanzato, che appaiono avare con tutte le categorie, in particolare quelle più alte. Si va infatti, rispetto alle medie di categoria, da meno 7,5 per cento dei dirigenti a meno 6,2 dei quadri, fino a meno 2,1 degli impiegati. Sembra un autogol per un settore che dovrebbe attirare proprio i talenti di fascia alta, ma la spiegazione esiste. “In queste imprese sta prendendo sempre più importanza la parte non monetaria della retribuzione, dal corso prestigioso di formazione all’assicurazione sanitaria” spiega Vavassori. E vista l’aria che tira sembra una scelta da non sottovalutare.

Fonte:
http://blog.panorama.it/economia/2009/05/24/stipendi-dove-guadagnare-di-piu-in-un-paese-di-paghe-appiattite/

domenica 10 maggio 2009

Le ricche pensioni del Senato A un commesso 8 mila euro

ROMA — Ottomila euro lordi al mese per quindici mensilità. È la pensione spet­tante a quel commesso del Se­nato che giusto una decina di giorni fa ha deciso di lasciare il lavoro. All’età di 52 anni. Il più recente protagonista di un inarrestabile e costosissi­mo esodo. Leggendo il bilancio di pre­visione 2009 approvato il 21 aprile dal consiglio di presi­denza di palazzo Madama si scopre che negli ultimi due anni i costi per pagare le pen­sioni sono letteralmente esplosi.
Fra il 2007 e il 2009 sono passati da 77,8 a quasi 90 milioni, con un aumento del 14,3%. Ma se si escludono le pensioni di reversibilità, quelle cioè pagate ai supersti­ti, la progressione è stata an­cora più violenta: +15,6%. Die­ci milioni e 800 mila euro in più. Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 mi­lioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione me­dia dell’Inps. Inoltre, detta­glio non trascurabile, le pen­sioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di pa­lazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedi­to al Senato di rinunciare, co­me invece hanno fatto Came­ra e Quirinale, all’adeguamen­to all’inflazione programma­ta per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sfor­biciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.
Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del rispar­mio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla ridu­zione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecito­rio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’au­mento della spesa della Came­ra per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di rever­sibilità graveranno sul bilan­cio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vi­te particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privi­legi sopravvissuti a tutti i ten­tativi di riforma? Non è affat­to da escludere.
Al Senato, per esempio, chi è stato as­sunto prima del 1998 può an­cora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che ab­bia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e del­l’anzianità di servizio al Sena­to. Con 53 anni di età e la stes­sa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna pena­lizzazione. Da tenere presen­te che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calco­la con il vantaggiosissimo si­stema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipen­dio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente ver­sati) stabilito dalla riforma Di­ni del 1995 per tutti i lavorato­ri comuni mortali. Con lo stesso sistema retri­butivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a pa­lazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso lo scorso agosto che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pen­sione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colle­ghi più fortunati. Ma il fami­gerato sistema contributivo prima o poi arriverà anche in Senato. Sarà applicato a tutti gli assunti dal 2007. Quanti sono? Per ora, zero.
Sergio Rizzo
06 maggio 2009

Fonte:
http://www.corriere.it/cronache/09_maggio_06/pensioni_senato_scandalo_6324d704-3a00-11de-9bf9-00144f02aabc.shtml